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Lavorare per il bene della propria comunità

Abbiamo intervistato Desiré Rwagaju che da quasi 10 anni collabora con Fondazione Marcegaglia per realizzare progetti di sviluppo nel distretto di Bugesera in Rwanda, dove è nato e cresciuto.

Beatrice Villa di Fondazione Marcegaglia: Ciao Desiré, noi ci conosciamo da anni ma per prima cosa ti chiedo di presentarti anche ai nostri lettori.

Desire Rwagaju: Ciao a tutti, mi chiamo Desire Rwagaju, sono rwandese e sono coordinatore del programma Paese per la Fondazione Marcegaglia Onlus, in Rwanda, ufficialmente dal 2017 anche se di fatto ho seguito il progetto fin dalla sua nascita nel 2013. Quest’anno compio 35 anni, sono spostato e ho due bambini.

B.V.: Tu sei nato proprio nel distretto di Bugesera, a Rilima, dove opera la Fondazione. Cosa significa per te aiutare la comunità dove sei cresciuto?

D.R.: Credo di essere il coordinatore paese più fortunato del mondo perché tutti i progetti che sto implementando per conto della fondazione Marcegaglia stanno andando a beneficio diretto della comunità, dove sono nato. Sono cresciuto con il desiderio di fare qualcosa per alleviare la difficile situazione socio-economica della mia gente e ora lo sto facendo davvero. Grazie alla Fondazione Marcegaglia ora molte famiglie possono soddisfare i loro bisogni quotidiani come la sanità di base, la scuola per i propri figli, l’irrigazione dei campi, l’accesso ai capitali per creare piccole imprese.

B.V.: Qual è la cosa che ti piace di più delle persone della tua comunità?

D.R.: La cosa che apprezzo di più della gente di Rilima è il fatto che le persone sono riuscite a riunirsi e lavorare insieme per ricostruire la loro comunità dopo il tragico genocidio del 1994, nonostante le conseguenze drammatiche che hanno subito.

B.V.: Cosa è cambiato a Rilima negli ultimi anni grazie ai progetti che stai portando avanti?

D.R.:E’ cambiato davvero molto sia a livello individuale che generale. Molte famiglie hanno accesso all’acqua corrente pulita, possono irrigare i loro campi, hanno mucche e capre da allevare e producono il cibo che consente loro di vivere. Le donne sono state finalmente messe in condizioni di lavorare perché la Fondazione ha istituito o rafforzato 11 ECD (Centri per l’Infanzia) che accolgono bambini di età inferiore ai cinque anni provvedendo a cura e alimentazione. Questa è una vera novità per il Rwanda perché la maggior parte dei bambini non frequenta la scuola materna. Infine molti giovani hanno visto i loro sogni diventare realtà tramite il programma di borse di studio della Fondazione che ha formato laureati e professionisti in diversi campi come sartoria, falegnameria, arte culinaria, meccanica automobilistica.

B.V.: Qual è la cosa più bella che hai visto accadere?

D.R.: Il più bel cambiamento che ho visto accadere a Rilima è stato l’aumento della coesione sociale: le persone sono più vicine tra loro e comprendono l’importanza di migliorare il proprio sostentamento. C’è più senso di responsabilità dei genitori nei confronti dei figli e una forte volontà di lavorare, generare reddito e svilupparsi.

B.V.: La maggior parte dei progetti della Fondazione ha come beneficiari le donne, che ruolo hanno nella comunità?

D.R.: Attualmente il Rwanda è uno dei paesi migliori per le donne perché le leggi e le politiche del governo favoriscono l’inclusione e l’equilibrio di genere a tutti i livelli. Dopo il genocidio si è avviato un percorso interessante che ha coinvolto donne e uomini nello stesso modo con l’unico obiettivo di ricostruire il paese. Così da una cultura conservatrice siamo arrivati ad abbracciare l’uguaglianza. La Fondazione Marcegaglia lavora nella stessa direzione; abbiamo riscontrato infatti che la maggior parte delle famiglie vulnerabili, sono guidate da donne, vedove o che hanno i loro mariti in prigione a causa del genocidio, e abbiamo dato loro fiducia e gli strumenti per poter migliorare la propria condizione. Il ruolo delle donne è stato determinante per il successo dei vari interventi di protezione dell’infanzia e riduzione della povertà che abbiamo messo in campo.

B.V.: Per concludere mi piacerebbe sapere qual è il tuo sogno nel cassetto…

D.R.: Il sogno è vedere membri della comunità con condizioni di vita dignitose, in grado di accedere all’assistenza sanitaria, all’istruzione, ai servizi idrici e sanitari, alla produzione alimentare autosufficiente, a fonti di reddito diversificate dai servizi basati sull’agricoltura. Sogniamo di vedere questa comunità resiliente in grado di riprendersi con orgoglio completamente dal suo passato e andare avanti con le proprie gambe. Per raggiungere questo obiettivo, stiamo finalizzando l’identificazione delle famiglie più vulnerabili da includere nel nuovo intervento volto a un rafforzamento delle capacità familiari olistiche e partecipative per i prossimi cinque anni che abbiamo chiamato ZAMUKA, che in Kinyarwanda significa semplicemente alzarsi e stare in piedi con le proprie gambe.